Il declino della Susan


 
Scrivo questo post per ricordarmi l'episodio, voglio conservarne una traccia.

La notizia non è fine a se stessa, si aggiunge ad altre "red flag" che in questi giorni, di tanto in tanto, scorgo sulla rete. Tradisce una malcelata paura che le cose non tornino com'erano nelle zone con uffici e pause pranzo fuori, ma mostra anche il declino di un quotidiano –Il Corriere – che ho sempre considerato prestigioso 一Tommaso Labranca lo diceva già anni e anni fa; naturalmente aveva ragione.

Facciamo una panoramica per la me stessa del futuro che si troverà a leggere questa roba. Chissà perché so che un giorno mi servirà rileggere questo post.

Cara Gatta del futuro, come ben sai una delle tante conseguenze della "Grande Pandemia del 2020" è stata la diffusione del cosiddetto smart working, ovvero il telelavoro organizzato alla meno peggio in quattro e quattr'otto.
Come ben sai, anzi come ben sappiamo è stata una scelta forzata dalle circostanze, spesso organizzata alla bisogna, per tamponare l'emergenza che ci ha colti impreparati.
Lavorare da casa non è stata una scelta, ma molti (non tutti) ci hanno trovato dei lati positivi.



Le aziende hanno risparmiato su utenze e materiali, tanto per cominciare.

I lavoratori spesso ne hanno guadagnato in qualità della vita; niente pendolarismo quotidiano; niente convivenza forzata coi colleghi; niente pause pranzo spese a mangiare la m**** a caro prezzo nei locali. Se stai a casa spendi meno, ti fai da mangiare quello che ti pare e non devi andare nella calca dei locali a spendere un puttanaio di soldi. Ci siamo ritrovati con tempo libero in più, e a trascorrere le giornate nel nostro ambiente.

Molti hanno gradito la cosa. Io sono tra quelli "anche no".

La novità però ha spaventato un po' di gente, tipo Beppe Sala che si è trovato per le mani anche la crisi dei ristoratori delle pause pranzo.

E questo dibattito ha cominciato a prendere campo. Ovunque.

Al bar accanto al mio ufficio sono preoccupatissimi, li capisco, li conosco e mi stanno simpatici, anche se essendo gli unici nella zona in situazione normale si approfittano sempre per prezzi e qualità dell'offerta, fregandosene dei reclami. Adesso la situazione si è ribaltata e non passa caffè che non mi tocchi ascoltare le lamentele per il calo dei coperti giornalieri.

Il dibattito si intensifica dappertutto, Sala fa la sua gaffe passivo aggressiva, esortando il ritorno agli uffici e sottintendendo che lavorare da casa non sia un vero lavoro. Indignazione.

Poi esce sul Corriere un articolo con elaborazioni grafiche di rarissima bruttezza dove si mostrano gli effetti devastanti su una donna  – mettiamocela la questione di genere perché qui c'entra, dai – dopo 25 anni di smart working.

La donna si chiama Susan, un personaggio ovviamente obeso e ingobbito dallo stare al pc di casa perché evidentemente nelle aziende i computer non esistono. Susan è un disastro: i capelli radi, doppio mento, occhiaie da competizione, rughette e screpolature cutanee di rito. Vive in pigiama, con una maglietta troppo piccola che non le copre la pancia strabuzzante e le immancabili ciabatte ai piedi.

Un identikit fatto al computer per simulare cosa accade a questa donna – paradigma di tutte noi – dopo 25 anni di lavoro da remoto in cui evidentemente tutto è andato storto. Come se fino al covid non fossero mai esistiti lavoratori e categorie di lavoratori da casa.
Alla base di questa simulazione c'è uno studio che ha visto la partecipazione di un team di psicologi ed esperti di fitness, leggo sulla pagina del Corriere.

Sempre sul Corriere leggo che col covid-19 lo smart working è diventata prassi consolidata in mezzo mondo, nonché tema di dibattito, molti hanno cominciato a vedere i lati positivi dello stare a casa a lavorare. Però da via Solferino il messaggio malcelato è "occhio donne che poi diventate come la Susan".

Mi rendo conto che la diffusione di questo modo di vedere e concepire lavoro e ritmi lavorativi quotidiani abbia iniziato a spaventare un po' gente.

Mi dispiace anche perché il Corriere è un quotidiano che aveva il suo prestigio, la sua storia, e vederci pubblicate queste stronzate (senza asterischi, sfido l'ira di Google) mi dispiace tanto. E sono anche perplessa perché Gramellini la pensa come me.

2 commenti:

  1. Non so, cara Gattasorniona del futuro, dove stia il punto di equilibrio fra il lavorare da casa e l'andare ogni giorno in ufficio.
    Per me, che da casa lavoro da quasi 5 anni, quindi da tempi nei quali si trattava di scelta e non di imposizione, oltrettutto gravata dalla cupezza esterna imbavagliata e ammutolita da misterioso virus, ha infatti punti a favore e punti contro.
    A favore: meno costi fissi, non solo per caffè, pasti panini e parcheggi. Spendo meno anche per vestiti, parrucchiere, estetista, ecc. Perché non compro più vestiti e dal parrucchiere non ci vado più? No, solo non ho più l'esigenza di cambiare look ogni mattina e se il taglio è a posto dal parrucchiere ci vado meno. A favore anche il fatto di poter fare yoga quando me ne viene l'ispirazione, senza dover attendere la serata in palestra: ho la casa tutta per me, quindi posso fare asana sicura che nessuno verrà a disturbarmi mentre sto a fare la candela o il cadavere (shavasana).
    Contro: il lavoro diventa più pervasivo, e per quanto ci si impegni a programmarsi orari e disponibilità, si finisce sempre per esondare e tracimare così che sotto pressione lavoro e vita si mischiano diventano molto più nevrotici entrambi.
    Poi sì, organizzo serate con i colleghi, ma si finisce comunque sempre per parlare di lavoro. Ed è altro lavoro. E se decido di andare al mercato a fare la spesa a volte è divertente stare al telefono mentre cammino per strada alle undici di mattina, ma è una gran seccatura quando il telefono ti squilla mentre stai ai banchi affollati di frutta e verdura con le comari che sgomitano per fregarti la precedenza.
    Chi ci guadagna? Io, questo è certo: meno costi, come si diceva, e migliore gestione dei miei tempi. Ma ci guadagna anche la società con cui collaboro: meno costi di luce/acqua/gas/carta igienica/pulizie locali, carta e inchiostro stampante, ecc.
    Che pago io.
    Che però mi faccio pagare di più proprio per i costi che ricadono sulle mie tasche.
    Tornerei in ufficio?
    Sì, perché ha un suo perché la ritualità dell'ufficio, e a lungo andare un po' mancano le chiacchiere maligne alla macchinetta del caffè.
    Diventerò gobba, grassa, irsuta?
    Forse, non lo escludo.
    Però fin qui noto che dato che uscire si esce comunque, forse di più, la cura del look s'impone uguale, solo è meno nevrotica e competitiva.
    Insomma, sono due mondi e due modi diversi di guadagnarsi il pane, diciamo che il lavoro da casa richiede però un salto mentale per uscire dal film 9 to 5, cioè dal ruolo della dipendente, per entrare con maggior convinzione in quello di lavoratore autonomo. Si contratta su tutto, a ogni richiesta di prestazione corrisponde un prezzo da sborsare. Gratis, nulla.
    Ciò che intanto però, li fuori, va in malora, sono gli affari di chi sui lavoratori 9 to 5 ha messo in piedi il suo business: bar, ristoranti e paninoteche, parcheggi, palestre con cosri in orario pasti, ecc.
    Perché lavorare da casa sviluppa una certa tendenza all'indipendenza dai cliché, e al bar per un caffè ci vado solo se ho voglia e tempo per godermi anche due passi all'ora che mi va...
    Ciò che non va, è che questo smartworking lo pretenda la società per cui lavori, lo solleciti il Governo, lo magnifichino i media mainstream, quelli che poi piangono se non gli compri il giornale o non gli sottoscrivi un abbonamento per garantirgli la sopravvivenza...Finché non è chiara la differenza sostanziale fra un lavoratore dipendente e un lavoratore autonomo, chi lavora da casa è destinato a diventare non solo Susan, ma una Susan sempre più vessata, più povera, in concorrenza con i lavoratori in smartworking di tutto il pianeta.
    E questo si che farebbe ingrassare anche un santo.

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    Risposte
    1. Infatti, l'organizzazione e la volontarietà è fondamentale. C'è stata l'emergenza e va bene, ma chi ha lavorato da casa l'ha fatto in una situazione di emergenza, appunto. Se deve diventare la regola, deve essere organizzata in altro modo. Per me, per esempio, non è cosa. Posso stare a casa ogni tanto, ma sono più efficiente se sto in azienda, riesco a fare più cose e più in fretta. Ma questo dipende dal tipo di lavoro ecc.
      Mi piace molto la frase che hai scritto: "lavorare da casa sviluppa una certa tendenza all'indipendenza dai cliché" . Non ci avevo pensato , ma è stravero.

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