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Vaccinarsi, oggi

Faccio parte di una di quelle categorie lavorative che hanno diritto al vaccino. 

Dunque mi sono vaccinata.

Mi è toccato il Pfizer-BioNTech, ma sarebbe andato benone anche il Moderna. Avevo soltanto qualche perplessità per l'AstraZeneca, a quanto si sa ha una capacità di protezione inferiore al 60% e mi mi pareva troppo poco. Non per essere choosy, è il mio onesto stato d'animo. In molti fanno questo ragionamento, mi pare piuttosto condivisibile.

Mi sono vaccinata a Torregalli perché ho trovato posto lì. Era quasi tutto esaurito quando ho prenotato approfittando di una finestra nel sito della Regione Toscana. Penso di aver avuto un culo della madonna a trovare posto, ogni volta che aprono uno spazio si esaurisce subito.

Ma torniamo a Torregalli.

C'era tanta gente, ho trovato un'ottima organizzazione. Al piano terreno, cinque o sei ambulatori adibiti alle somministrazioni. Si entrava dal davanti e si usciva dal retro. All'interno due operatori, uno per la parte burocratica e l'altro per "punturarti". 

L'infermiera che mi ha fatto l'iniezione aveva una mano meravigliosa, gliel'ho anche detto, ringraziandola. Praticamente non me ne sono neanche accorta. Poi esci dall'altra porta e ti ritrovi in un corridoio assieme alle altre persone che hanno appena fatto il vaccino. Devi sederti e attendere un quarto d'ora, per scongiurare eventuali reazioni allergiche. Un medico andava in su e in giù, in caso qualcuno avesse avuto bisogno. 

Passato il quarto d'ora ti alzi e te ne vai. 

Finito. 

Ci vediamo tra tre settimane per la seconda dose.


Come promemoria una cartolina con nome, cognome e gli spazi per i due "tagliandi". Il primo è già occupato, l'altro lo sarà alla seconda puntura. Assieme al tesserino ti danno anche "una cartolina del Presidente", come ha detto la signora che mi ha fatto la burocrazia. "Sono i ringraziamenti del Giani", ha continuato prima che uscissi dalla seconda porticina. 

Mi sono messa a sedere titubante, una parte di me temeva una reazione allergica, non si sa mai. 

Rigiravo tra le mani la cartolina del Giani, dal titolo Più ti curi, più sicuri, col Presidente della Regione che dice: Grazie! Decidendo di vaccinarsi ha fatto un gesto d'amore, non solo per lei e per i suoi cari, ma anche per tutta la nostra comunità. In questa terribile pandemia la Toscana ha fatto squadra con la sanità e la scuola con le forze politiche di maggioranza e di opposizione con ogni realtà del volontariato e dell'associazionismo. Da oggi con il suo impegno siamo ancora più forti e guardiamo al futuro liberi dal virus: grazie di cuore per aver reso la #Toscanasicura. Firmato il presidente Eugenio Giani.


Questo ringraziamento mi è parso fuori luogo. 
 
Che c'entra Giani? 
 
Mi ha ricordato quando Trump ha voluto firmare con nome e cognome gli assegni dei sussidi per il covid-19. Una roba di propaganda che anche no, via, fosse solo per eleganza. E poi perché la gente si vorrebbe vaccinare eccome, solo che non ci sono abbastanza vaccini.
 
Inutile ringraziare chi riesce a farsi l'iniezione, siamo i privilegiati in questo momento. 
 
Sono io che ringrazio lo Stato e gli chiedo di sbrigarsi per tutti gli altri che stanno aspettando.
 
Sul sito che il Sole 24 Ore ha dedicato alla vaccinazione in tempo reale, ci sono i numeri e il panorama è abbastanza sconcertante. Ho fatto attenzione alla situazione in Toscana, soprattutto alle previsioni per raggiungere l'agognata immunità di gregge: il 70% della popolazione vaccinata. 
 
Ecco qua che meraviglia:



Schermata raccolta adesso, poco prima di pubblicare questo post. Prospettiva drammatica, anche se in tutta onestà credo che questo dato cambi di giorno in giorno, o comunque ogni volta che il dataset viene aggiornato. Tuttavia è una previsione piuttosto disturbante.

In questa prospettiva, il bigliettino di Giani fa un po' ridere.
 
Infine vorrei aggiungere che sono stata bene. 
 
Nessun disturbo. 
 
Non ho neanche preso il paracetamolo come consigliavano (sono stata consigliata da più persone di prendere una Tachipirina). Il giorno dopo ho il braccio un po' indolenzito, tutto qui. Spero rimanga in questo modo e non succeda niente di diverso.
 
Racconto questa cosa, perché me la voglio proprio ricordare l'epoca della vaccinazione di massa.

La verità, vi prego, sulle melanzane

Il piatto che ho cucinato più spesso durante il primo lockdown è senza dubbio il sugo alle melanzane. 

Mi piacciono un casino le melanzane. Quando siamo stati due mesi chiusi in casa mi sono sbizzarrita a prepararle in tutti i modi.

Tutti i modi che conosco, cioè due: grigliate o saltate in padella. 

Il mio sugo altro non è che melanzane tagliate a tocchetti grossolani, ripassate in padella con olio e basta. Lo mangio volentieri da solo o più spesso con la pasta. È una ricetta tutta mia, la chiamo "melanzane alla pasta" perché la proporzione è di circa due-anche-tre a uno per le melanzane. Un po' come se la pasta fosse il condimento. 

Delizioso, che te lo dico a fare.

Verso la fine di aprile ne avevo messo da parte un po' di questo sugo. Poi non l'ho più mangiato, dio solo sa il perché. Forse perché mi ricordava la clausura forzata, chissà. E manco c'ho pensato più al sugo di melanzane fino a ieri quando, aprendo il freezer, ho posato l'occhio sul tupperware cristallizzato, incastonato sul fondo, tra piselli e minestrone. 

Ora, non vorrei dare l'impressione di quella che non apre il proprio freezer da aprile, diciamo che soltanto ieri ho fatto caso alle melanzane.

A questo punto io mi chiedo: ma saranno ancora buone? 

Potrei buttare tutto, certo, ma quelle sono le melanzane del lockdown, sono simboliche.

 

Photo by Tijana Drndarski on Unsplash

Farsi delle domande: assembramenti e movida


Ieri sono andata a cena in pizzeria con amici. 

C'era molta gente, com'è naturale il venerdì sera. L'aria nel locale era pesante, o almeno mi è parso che lo fosse. 

Mi sono subito sentita a disagio e ho tolto la mascherina solo quando la cameriera ha appoggiato le prime ordinazioni sul tavolo. 

Non un secondo prima. 

Col mio gruppo di amici siamo andati per tutta l'estate a cena nello stesso posto, all'aperto. Ora però fa più freddo così dobbiamo stare al chiuso. 

Ma la nostra pizzeria è uno di quei locali belli quando si mangia nel giardino, con tanto verde, il parco in fondo, le luci della città che creano un effetto tipo "L'impero delle luci". 

All'interno è un'altra cosa; cambiano illuminazione, colori, atmosfere. Tutto diventa più cupo e freddo.

Chissà se i gestori del locale si preoccupano di questo gap esperienziale, perché sembra davvero di stare in due locali differenti.

Torniamo a ieri sera. 

Sono stata contenta che fosse tardi, mangiare al secondo turno è la cosa migliore di questi tempi, il locale piano piano si è svuotato e ho cominciato a sentirmi a mio agio. Ho fatto caso al mio cambiamento di umore, mi sono resa conto che mi stavo rilassando man mano che gli altri clienti andavano via.

A tavola ero con i soliti amici con cui mangio almeno una pizza a settimana, si chiacchierava di Firenze. A quanto pare vogliono mettere dei tornelli per accedere a Piazza Santo Spirito perché la sera è piena di gente sta diventando un problema per il contenimento del virus. Assembramenti, movida, queste cose qua. 

Non ci passo quasi mai la sera da piazza Santo Spirito, troppa gente. Però sono contraria, contrarissima ai tornelli. Se li mettono con la scusa del covid poi li lasceranno lì forever.

Sono per i controlli caso per caso. Chi sgarra viene sanzionato, of course, ma chi si gode la serata nel rispetto delle norme deve essere lasciato in pace. 

Il mettere tutto in un grosso calderone mi sembra un modo sciatto di amministrare, come quei baristi che espongono il cartello odioso "per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno". Ci faccio caso, denota sciatteria e pavidità. Oh, ognuno ha i suoi standard per giudicare dove prende il caffè. Io ho questo.

Mi sono chiesta: ho così tanta paura di ammalarmi? No, almeno non mi pare. Ho più paura che tutto collassi. Non è il covid, sono le sue conseguenze sulla società che mi preoccupano di più.

Ma che stanchezza.


Ormai

 

Il principale motivo per cui mi risulta difficile scrivere è che in questo periodo faccio una vita piuttosto ritirata.

Non è successo all'improvviso, ci mancherebbe. 

A poco a poco, negli ultimi anni, in seguito a una serie di scelte e situazioni di cui forse non sono neanche responsabile al cento per cento, mi sono trovata a percorrere un sentiero che non so come ormai è diventato il percorso di una buona porzione della mia vita. 

Non ho più la tele da quasi una quindicina di anni, ormai. Leggo i giornali solo quando mi fermo al bar, ormai. Frequento socialmente solo nicchie e bolle a me congeniali, ormai.

Si capisce che in una situazione così gli argomenti da blog decadano. 

Di brutto.

Al contempo sento anche che non mi evolvo più come un tempo, e non so se è perché ormai sono troppo vecchia o perché 'sta bolla è diventata di gomma dura, impermeabile come dei vecchi pneumatici lisci e per nulla ecologici.

È brutta la sensazione di rimanere nello stesso posto.

Cinque anni fa, adesso, tra cinque anni: sempre la stessa minestra.

Quando attraverso fasi esistenziali come questa il primo campanello di allarme sono le letture. Occhio alle letture. Per esempio, adesso sto leggendo questo libro, più di un campanello è una sirena ululante.

Ecco cambiare ok, ma tutto sommato non si sta così male, allora cambiare poco, pochissimo alla volta, ma anche no.

E in questo orizzonte lo scrivere mi risulta difficoltoso.

Ma non volevo scrivere questa roba. La foto, volevo parlare della FOTO. 

Guardiamo attentamente la foto, please.

La foto mi manda fuori di testa. 

Pensiamoci un attimo. Se un anno fa avessimo potuto vedere un'anticipazione, un flash del futuro e ci fosse apparsa questa foto, che avremmo pensato?

Il declino della Susan


 
Scrivo questo post per ricordarmi l'episodio, voglio conservarne una traccia.

La notizia non è fine a se stessa, si aggiunge ad altre "red flag" che in questi giorni, di tanto in tanto, scorgo sulla rete. Tradisce una malcelata paura che le cose non tornino com'erano nelle zone con uffici e pause pranzo fuori, ma mostra anche il declino di un quotidiano –Il Corriere – che ho sempre considerato prestigioso 一Tommaso Labranca lo diceva già anni e anni fa; naturalmente aveva ragione.

Facciamo una panoramica per la me stessa del futuro che si troverà a leggere questa roba. Chissà perché so che un giorno mi servirà rileggere questo post.

Cara Gatta del futuro, come ben sai una delle tante conseguenze della "Grande Pandemia del 2020" è stata la diffusione del cosiddetto smart working, ovvero il telelavoro organizzato alla meno peggio in quattro e quattr'otto.
Come ben sai, anzi come ben sappiamo è stata una scelta forzata dalle circostanze, spesso organizzata alla bisogna, per tamponare l'emergenza che ci ha colti impreparati.
Lavorare da casa non è stata una scelta, ma molti (non tutti) ci hanno trovato dei lati positivi.



Le aziende hanno risparmiato su utenze e materiali, tanto per cominciare.

I lavoratori spesso ne hanno guadagnato in qualità della vita; niente pendolarismo quotidiano; niente convivenza forzata coi colleghi; niente pause pranzo spese a mangiare la m**** a caro prezzo nei locali. Se stai a casa spendi meno, ti fai da mangiare quello che ti pare e non devi andare nella calca dei locali a spendere un puttanaio di soldi. Ci siamo ritrovati con tempo libero in più, e a trascorrere le giornate nel nostro ambiente.

Molti hanno gradito la cosa. Io sono tra quelli "anche no".

La novità però ha spaventato un po' di gente, tipo Beppe Sala che si è trovato per le mani anche la crisi dei ristoratori delle pause pranzo.

E questo dibattito ha cominciato a prendere campo. Ovunque.

Al bar accanto al mio ufficio sono preoccupatissimi, li capisco, li conosco e mi stanno simpatici, anche se essendo gli unici nella zona in situazione normale si approfittano sempre per prezzi e qualità dell'offerta, fregandosene dei reclami. Adesso la situazione si è ribaltata e non passa caffè che non mi tocchi ascoltare le lamentele per il calo dei coperti giornalieri.

Il dibattito si intensifica dappertutto, Sala fa la sua gaffe passivo aggressiva, esortando il ritorno agli uffici e sottintendendo che lavorare da casa non sia un vero lavoro. Indignazione.

Poi esce sul Corriere un articolo con elaborazioni grafiche di rarissima bruttezza dove si mostrano gli effetti devastanti su una donna  – mettiamocela la questione di genere perché qui c'entra, dai – dopo 25 anni di smart working.

La donna si chiama Susan, un personaggio ovviamente obeso e ingobbito dallo stare al pc di casa perché evidentemente nelle aziende i computer non esistono. Susan è un disastro: i capelli radi, doppio mento, occhiaie da competizione, rughette e screpolature cutanee di rito. Vive in pigiama, con una maglietta troppo piccola che non le copre la pancia strabuzzante e le immancabili ciabatte ai piedi.

Un identikit fatto al computer per simulare cosa accade a questa donna – paradigma di tutte noi – dopo 25 anni di lavoro da remoto in cui evidentemente tutto è andato storto. Come se fino al covid non fossero mai esistiti lavoratori e categorie di lavoratori da casa.
Alla base di questa simulazione c'è uno studio che ha visto la partecipazione di un team di psicologi ed esperti di fitness, leggo sulla pagina del Corriere.

Sempre sul Corriere leggo che col covid-19 lo smart working è diventata prassi consolidata in mezzo mondo, nonché tema di dibattito, molti hanno cominciato a vedere i lati positivi dello stare a casa a lavorare. Però da via Solferino il messaggio malcelato è "occhio donne che poi diventate come la Susan".

Mi rendo conto che la diffusione di questo modo di vedere e concepire lavoro e ritmi lavorativi quotidiani abbia iniziato a spaventare un po' gente.

Mi dispiace anche perché il Corriere è un quotidiano che aveva il suo prestigio, la sua storia, e vederci pubblicate queste stronzate (senza asterischi, sfido l'ira di Google) mi dispiace tanto. E sono anche perplessa perché Gramellini la pensa come me.

Londra o niente



Alla fine del 2019 ho comprato un biglietto aereo per Londra da usare in estate.
Le mie ferie.
Mi pare una cosa distante ere geologiche, invece è successa pochi mesi fa e ci siamo quasi.
Dovrei partire i primi di agosto, rimanendoci cinque giorni.
Le mie ferie.
Ho comprato quel biglietto ben prima della faccenda covid, quando mi pareva furbo approfittare di un'offerta per un volo molto comodo verso una destinazione gettonatissima.
Mai avrei pensato che sarebbe successo 'sto pandemonio.
Vabbè, a dicembre nessuno si aspettava una pandemia.
Nessuno tranne Bill Gates, naturalmente.
Adesso non so che cosa fare, se andare o no a Londra.
Ho tanta paura, gli inglesi mi sono sembrati molto superficiali nell'affrontare il virus e hanno ancora dei numeri alti di contagiati e morti.
E come se non bastasse, vacanza a Londra significa prendere la metropolitana per spostarsi in città, altro motivo di angoscia.
L'alternativa a Londra è niente, perché con la cassa integrazione che non viene pagata e tutto quanto, non posso permettermi altro.
E sono già molto fortunata.

Dicono che scrivere di un problema ne aiuti la soluzione.

Proprio quando avevo deciso di smettere di essere povera


Come proposito per il nuovo anno, avevo deciso di smettere di essere povera.

O almeno provarci.

Ho iniziato il 2020 dicendo a me stessa: «smetterò di essere povera quest'anno, troverò il sistema di fare un po' più di soldi, perché così non è possibile andare avanti». Mi sembrava un proposito condivisibile.

Poi è arrivato il virus, la chiusura, la crisi per tutti, i tentativi di galleggiamento generali che stiamo vivendo adesso.

Ora, ritengo inutile prendersela con chicchessia. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa del genere; non ha senso dire che gli scienziati lo avevano detto, Bill Gates l'aveva previsto in quel famoso Ted... 'sta pandemia che ci ha mandato tutti a gambe all'aria ci ha travolti come un tir sbucato all'improvviso.

E nel mio piccolo, i miei piani di arricchimento al di sopra della soglia di povertà sono falliti sul nascere.

Adesso mi trovo in una posizione che è fortunata ma non troppo, perché sono in cassa integrazione anche se non la pagano. Perché naturalmente l'azienda per cui lavoro se ne approfitta e i soldi dallo Stato non arrivano.

Non si sa quando finirà la cig e ogni volta che la data ipotizzata si avvicina, oplà, ce la allungano di nuovo per un altro mesetto tondo. A me hanno comunicato da poco che anche tutto luglio sarà così, al lavoro per due giorni a settimana.

Agosto non pervenuto. Per ora è come se non esistesse un mese che si chiama Agosto. Si materializzerà verso la fine di luglio. Sento già voci stridule rimbombare: «ma a-Agosto?! Icché si faaa a-Agosto?» In queste condizioni è impossibile pianificare alcunché. È impossibile anche lavorare al meglio.

Ma il mio è uno sfogo banale, ne sento di continuo di racconti come questo arrivare da gente che lavora nelle aziende più disparate.

Cerco di rimanere calma quando sento cose inaudite come "bisogna consumare", "bonus vacanze", "tornare a mangiare fuori in pausa pranzo".

Mi appresto a passare l'ennesima estate della mia vita nel mio quartiere. Che non è così male, sia chiaro. Mi godo Firenze che adesso è bellissima, senza turisti o quasi. Un po' stanno ritornando, ma non ai livelli di formicaio brulicante soliti.

Durante le mie passeggiate mi porto dietro uno strano magone. Come se tutto quello che sto facendo in questi giorni sia senza senso. Non che cerchi il senso profondo delle cose per forza, ma questo vivere lasciandosi andare avanti mi ha fatto capire che la mia vita, scevra dagli impegni sociali, è un po' vuota e ci vorrebbe qualcos'altro a riempirla.

Il lavoro è importante e me lo tengo stretto, va bene, ma porca miseria è sempre peggio. È come se ogni volta, ogni giorno, un tassellino di sicurezze e conquiste mi venisse asportato, spingendomi sempre più in una situazione precaria da cui pensavo di essere in maniera definitiva uscita già da un po'. Questa sensazione, ho notato, è condivisa; parlando con amici vengono fuori più o meno le stesse problematiche, le stesse preoccupazioni, la stessa apatia mista a paura, mista a inquietudine per il futuro. Perché il lavoro è quello che ci dà le risorse per fare il resto e adesso queste risorse sono sempre meno.

Ieri è stato San Giovanni e per la prima volta non ci sono stati i fuochi artificiali sparati dal Piazzale Michelangelo. Precauzione contro il covid-19 che condivido, ci mancherebbe. Così sono rimasta a casa, un po' stranita a dettare la bozza di questo post alla app di blogger, invece di essere fuori con un aperitivo in mano, studiando la postazione migliore per vedere lo spettacolo pirotecnico senza prendere i tizzoni sul capo.

E poi si sa, i fochi dell'anno scorso erano meglio.

Chissà che cosa diremo l'anno prossimo.

Sono stranita soprattutto perché ieri ho finito il libro di Claudio Giunta su Tommaso Labranca, Le alternative non esistono. È bellissimo, Giunta ha fatto un gran lavoro. Non sono ancora pronta a parlarne in modo più esteso, prima devo digerirlo bene. Mi ha fatto l'effetto di quell'ovo sodo che non va né in giù né in su. Sto rileggendo alcuni passi, soprattutto chiarirmi alcune idee. Mi sono resa conto di tante cose di cui non mi ero accorta di persona, e in un paio di momenti mi sono sentita anche un po' bischera. Ma non mi va di parlarne adesso.

Diario di oggi e di ieri


Oggi sono un po' più nervosa del solito. Il motivo è lavoro, ma non solo. Gli orari sballati, la cassa integrazione, l'atmosfera che non è delle più distese. Ci sono cose peggiori, ne sono consapevole, ma ogni tanto lo sconforto prende il sopravvento. Poi torno a casa, mi faccio una tisana e mi accampo sul divano col sottofondo musicale: Baby shark, senza soluzione di continuità. La bimba dei vicini ne va matta e i muri sono sottili. 
Tra un sorso e l'altro di malva e finocchio, razionalizzo il mio piccolo universo entropico.
Dovrei essere più riconoscente nei confronti della mia buona stella; i tempi sono quelli che sono, ci sono persone che il lavoro l'hanno perso, altre che non sanno dove sbatteranno la testa tra un mese. 
Per adesso io ho una grossa fortuna. 
Ma.
Ma, c'è un ma. A parte i soldi della cassa integrazione che non arrivano, c'è anche quel per adesso che ha già cominciato a farmi dormire malino. 
Ufficio riorganizzato, gente che viene tenuta a casa perché tanto paga lo Stato, scambi di orari che sballano tutto, scadenze che devono essere rispettate come se il covid-19 fosse scoppiato su una galassia lontana anni luce dalla nostra.
Da giorni la mia idea, il mio impulso più forte è mollare tutto e andare via. Niente di trascendentale, è un impulso normale, tutti lo proviamo di tanto in tanto. C'è chi lo sente di continuo. Poi nessuno si muove perché all'atto pratico: andare via dove? Come si campa andando via? Questa vita è quella che mi rimane attaccata addosso ed è quella che mi devo tenere perché non son mica sicura che ce ne siano altre migliori. 
Uh, che bel momento di depressione. 
C'è anche un altro motivo per tutto questo sconforto. 
Ho cominciato a leggere il libro su Tommaso Labranca "Le alternative non esistono" scritto da Claudio Giunta. Ho pianto alla seconda pagina. È una lettura abbastanza intensa per me, impegnativa in ogni senso. Lo leggerò piano piano. Il libro è bello – per quel poco che ho letto fino adesso – scritto e documentato bene. Ci sono alcune cose che non mi tornano, ma non mi aspettavo diversamente e ne scriverò quando l'avrò finito. 


Ieri sono passata davanti all'Antico Vinaio in via de' Neri e c'era gente, si cominciano a vedere i primi turisti in fila per la schiacciata. Quel vinaino snobbato dai fiorentini – me compresa, poco più avanti c'è un alimentari storico con un prosciutto fenomenale – è il primo segnale della ripresa turistica cittadina. 
Si rianimano le strade e le piazze che erano bellissime deserte, ma anche vederle riprendere vita non è malaccio. Gli amici che lavorano in centro hanno ricominciato a tirare su i bandoni ed è una bellissima notizia. 
E poi è tornato anche lui:

Della poca differenza



Molto del disappunto di questi giorni nasce dal rafforzarsi della consapevolezza che il nuovo mondo, della cui idea tutti ci siamo invaghiti, sarà ben poco differente dal vecchio. 
Certo, negli ultimi due mesi ci sono tante cose che sono cambiate, però - stringi stringi - nulla di veramente significativo. Superficialità, quisquilie, rotture di scatole, impoverimento. Cassa integrazione.

Mi viene in mente un dettaglio divertente.

Anzi, mi fa proprio ridere.

Parlo con amici che sono sempre stati un po' col piedino tendente a destra, con la manina pronta a scattare producendosi in rigidità grottesche, e adesso li scopro incazzatissimi per quanto le forze dell'ordine siano repressive, perché quella volta si stavano facendo i cavoli loro, gli hanno chiesto dove andate, hanno voluto i documenti, li hanno redarguiti con fare paternalistico per concludere con: questa volta non vi facciamo la multa e cose del genere, quando invece l'ordinanza non era chiara e dovrebbero essere più rispettosi dei cittadini. Cittadini-che-pagano-le-tasse.

Nel 2020 scoprire da insospettabili criptofascistelli – cartina di tornasole per individuarli: malcelata soddisfazione per i massacri di Genova 2001 + inossidabile tendenza all'autocommiserazione tout court – che le forze dell'ordine hanno bisogno di regole altrimenti tendono a diventare tracotanti è interessante, perché vuol dire aver vissuto poco o aver vissuto forse in qualche nicchia ovattata fatta di privilegi micragnosi e troppa televisione.
Accoppiata che ottunde e dà una percezione distorta di sé e del mondo in cui si vive.
Percezione che è pronta a volatilizzarsi in un puf! con un brusco tonfo nella "realtà vera" in caso, per esempio, di panedemia.
Ma anche in caso di molto meno.

Comunque che certe cose diventino un problema solo quando capitano in prima persona è un'altra "cartina tornasole dell'imbecillità" (cit. Tommaso Labranca❤️).

Sul ritorno alla cosiddetta normalità: anatomia di un bar preferito qualsiasi

Com'è bella Firenze senza turisti. 
Siamo sull'orlo della catastrofe economica, certo, 
ma la città in questi giorni è una meraviglia.

Sono stata a prendere un caffè nel mio bar preferito, finalmente hanno riaperto.

Adesso il bar funziona così.

Si entra con lo sguardo basso perché si devono seguire i segni sul pavimento fatti col nastro adesivo e prendere confidenza con le nuove misure.
Il posto è lo stesso di sempre, tuttavia adesso è differente. In senso distopico, intendo.
Due corsie nel corridoio che era già stretto di suo, ma nessuno ci aveva mai fatto caso tranne, forse, nelle ore di punta, ma in fondo sticazzi.
Sticazzi nel mondo di prima.
Invece ora salta all'occhio subito quanto sia stretto quel corridoio: da una parte si entra, dall'altra si defluisce. Il tutto uno alla volta.

Per terra ci sono anche delle croci, sempre fatte con il nastro, che indicano dove si può sostare in piedi per consumare. Le croci segnano i pochi posti disponibili di fronte al bancone, mentre tutto il resto del locale non è agibile.
In compenso non ho notato plexiglass, forse solo un poco di fronte alla cassa.

Allora sono entrata, ho salutato sorridendo (tra mascherina e occhiali non so quanto si sia visto), mi sono avvicinata al bancone, ho chiesto un caffè, che ho consumato con la mascherina abbassata e gli occhi chiusi.
Il rumore nel bar non è lo stesso di sempre, non c'è verso di ingannare il cervello.

Ho messo giù la tazzina e fatto un passo laterale per posizionarmi coi piedi sulla X di nastro adesivo di fronte alla cassa.
Ho rivolto un'occhiata ai posti a sedere dove altro nastro adesivo, distribuito con abbondanza, ne segnalava l'indisponibilità.

"Ancora non siamo sicuri come dobbiamo comportarci," hanno detto quelli del bar tra l'intimorito e il malinconico.
E li capisco, le zone grigie sono quelle dove il Comune pascola.
Specialmente in questo periodo di crisi.
Ho pagato, ho salutato dicendo che ero contenta di vederli e poi sono uscita tenendo d'occhio lo scotch sul pavimento.
All'aria aperta, nonostante il bar fosse tutto aperto, ho respirato a pieni polmoni.

Mi sa che questa normalità ce la dobbiamo conquistare di nuovo, e non sarà così semplice e non sarà così uguale a prima.

Ma neanche tanto diversa (ma su questo punto ci scrivo un post a parte).

Cosa ci rimane addosso?

Cosa rimarrà addosso dopo la clausura?

Ci penso un secondo, la domanda è pertinente.
A ben guardare ci sono delle cose che già sono cambiate nella mia vita. Piccole cose, ma su cui vale la pena soffermarsi un attimo, solo per mettere i puntini sulle i.
Tipo la qualità, oltre alla quantità, del tempo che passo a casa. 
Prima del coronavirus a casa ci stavo per le cose strettamente necessarie: dormire, lavatrici, pochi pasti. Tutto qui. Per il resto via via via, fuori il più possibile.
Negli ultimi anni sempre peggio.
Non so perché.
Adesso in casa ci passo più tempo.
All'inizio per forza di cose, naturalmente.
Ora, invece, perché mi fa piacere.
Ho superato quella certa soglia che un tempo mi terrorizzava molto più del covid: lo stare da sola e stare bene per questo.
Il "bastarsi" l'ho sempre visto come un punto di non ritorno esistenziale.
Adesso lo vedo come una fase. Come società ora sappiamo che possiamo stare chiusi in casa per due mesi e piano piano ritornare alla normalità.
Qualunque sia la normalità d'ora innanzi.
Sarà interessante scoprirlo.
Quindi addio teoria del non ritorno esistenziale.

Prima del covid non sapevo rispondere alla domanda "come ti vedi tra cinque anni?".
Domanda fondamentale ai colloqui di lavoro, ma che ha anche senso porsi di tanto in tanto per conto proprio. Lo facciamo tra amiche, per esempio.
Ecco, io non riuscivo più a rispondere, rimanevo interdetta e di malumore.
Il motivo era perché misuravo la prospettiva del futuro basandomi sul passato.
Mi spiego meglio, è una cosa di cui mi sono resa conto da poco. Andando indietro nel tempo, cinque, dieci anni fa, mi rendevo conto quanto poco fosse cambiato nella mia vita e inferivo su quanto poco sarebbe cambiato.
Un determinismo pessimista, frutto del precariato e della crisi che la quarantena ha smontato in gran parte. Se mi fai la domanda adesso, infatti, i malumori non si sono dissipati del tutto, ma almeno so rispondere. Ho capito qual è la direzione che voglio prendere, niente di che, piccoli progetti che non erano all'orizzonte due mesi fa. Piccole cose che cercherò di realizzare piano piano, tenendo stretto quello che ho adesso, ché con la crisi che ci sta piombando tra capo e collo, non è il caso fare colpi di testa. Alla mia età, poi.

Se qualcuno passa di qui (ho sempre il dubbio dopo gli anni di abbandono), mi piacerebbe tanto ascoltare altre esperienze e punti di vista.


A proposito di niente, l'autobiografia di Woody Allen


Quando è iniziato il lockdown pensavo che sarebbe stato una passeggiata per noi amanti della lettura: lunghe giornate a disposizione, con l'obbligo di stare in casa. Il paradiso del lettore. Invece è stato un purgatorio, ho avuto difficoltà enormi per riuscire a vincere il senso di angoscia e di paura, e finalmente immergermi come si deve in un libro. L'avere per le mani il libro giusto ha aiutato molto: A proposito di niente, splendida autobiografia di Woody Allen pubblicato da La Nave di Teseo e tradotto da Alberto Pezzotta.


Woody segue il suo flusso di coscienza, mentre ti costruisce in testa il suo mondo. Racconta quello che gli va, in una narrazione sapiente che è pura goduria. Va avanti anticipandoti un dettaglio, ritorna indietro completando un quadro, e ti piazza l'aneddoto pazzesco al punto giusto. Forse bisogna essere appassionati dei film e dei libri di Mr. Allen per godere così tanto di questa lettura, non so. So solo che da subito ho iniziato a dosarmi le pagine per non finirlo troppo in fretta. E tra qualche mese ho intenzione di rileggerlo.

WA racconta la genesi dei suoi capolavori cionematografici con spirito critico e devi sforzarti di far mente locale per ricordarti che no, non stiamo parlando di filmetti qualunque, ma di pietre miliari della storia del cinema. (Non tutti, lo so).
Lui si schermisce, evidenzia i difetti, le storture, le cose strane, non è mai soddisfatto. Per certi versi mi ricorda la modestia trasmessa da Agassi in Open.
Mr. Allen ci parla con generosità dei personaggi con cui ha lavorato, stelle e leggende dello spettacolo, tantissimi. Poi ci sono gli altri personaggi: c'è l'attico su Central Park da cui vede il susseguirsi delle stagioni, i locali frequentati, l'amore per New York e tutto ciò che offre nato nei primi anni di fughe downtown. Scopro che le riprese dei fuochi d'artificio esaltate dalla Rapsodia in Blu di Gershwin all'inizio di Manhattan sono state fatte per caso, la troupe era al posto giusto nel momento giusto. E anche che è tutta la vita che mr. Allen usa la stessa macchina da scrivere.

C'è anche la vicenda dell'accusa di molestie alla figlia, riportata a mio avviso in modo più trasparente di quanto non abbia fatto Ronan Farrow (ho letto anche Predatori). Woody si scusa di toccare l'argomento, "devo parlare anche di questo", ed ecco la sua verità, corroborata anche dal fatto che non ci siano mai stati processi e che le accuse siano cadute. Ci sono i racconti dei figli adottivi di Mia Farrow, lei ne esce malissimo e capisco perché Ronan abbia voluto bloccare il libro dove si racconta una Mia psicopatica che maltratta i figli adottivi e plagia i due naturali inculcandogli una storia orribile e inventata di sana pianta. Il ripensamento sulla pubblicazione di Aprops of Nothing non fa molto onore alla Hachette.

Il libro è bellissimo.

Voto 5 fuochi d'artificio su Manhattan, durante una notte in bianco e nero
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Diario delle impressioni sulle prime uscite





L'altro ieri sono andata a trovare i miei genitori, la prima volta in due mesi. Questo è stato il mio secondo ritorno alla normalità, dopo una passeggiata in centro il giorno prima. Li ho trovati in forma e di buon umore. Ringrazio il cielo per questo. Ma anche l'avere una casa col giardino aiuta molto. E pure vicini di casa gradevoli con cui poter chiacchierare a distanza, rimanendo ognuno a casa sua, ha fatto tanto.

Asp.

...a distanza, rimanendo ognuno a casa sua...

Ho sentito il bisogno di specificarlo. Perché?

Giusto altro giorno scrivevo che se c'è una cosa che ho imparato in questi due mesi è che esiste tutta una categoria di persone che gode nel frustrare gli slanci altrui. Gente che sta male sempre, ma che in condizioni normali si mimetizza abbastanza bene. Invece la quarantena li ha attivati e la delazione del podista solitario li ha fatti splendere di una luce malata. 

Ecco.

Ora, io sono troppo vecchia per raccogliere la merda altrui* e infatti la lascio lì. Però mi rendo conto con fastidio che non mi era mai capitato di misurare le parole come in questo periodo. Non con tutti, ci mancherebbe, solo con alcuni insospettabili fino al lockdown. 

Se sono contenta cerco di non manifestarlo a queste persone che si inacidiscono all'istante e iniziano i commenti passivo-aggressivi solo perché mi godo il momento e ho voglia di compagnia. Ed è tutta gente che non ha fatto nemmeno un giorno di quarantena da sola in casa. Oppure che per vari cazzi ha avuto la possibilità di uscire anche se intasava le bacheche di #iorestoacasa. 

Un esempio tra tanti: ho ricevuto suggerimenti non richiesti su percorso e orario migliore per arrivare al supermercato "senza diffondere la malattia" (cit.). Per la cronaca: io ho fatto il test sierologico e sono risultata negativa, chi mi ha dato questo consiglio non ci pensa nemmeno a fare altrettanto. Lo stress unito all'incapacità di amministrarsi rende la vita difficile, mentre è molto più facile stare a sindacare su ciò che fanno gli altri

Adesso mi sento circondata. Ma forse esagero, sono poco propensa a sopportare. E vorrei anche vedere: dopo due mesi chiusa in casa da sola, diventare suscettibile mi pare il minimo sindacale. La legge italiana in tutte le sue emanazioni e il mio buon senso, sono le uniche due linee guida che seguo ora e che seguirò nei giorni a venire. Adesso abbiamo informazioni e acquisito comportamenti che all'inizio non conoscevamo, questo mi tranquillizza. 

Forse ha ragione il buon Zuliani quando dice che c'è tutta una categoria di persone che il lockdown è proprio cosa loro.


(*parafrasi di una cosa detta da Iggy Pop millemila anni fa che mi è rimasta impressa e oggi casca a fagiolo.)




Assaggi di libertà


Ieri sono uscita per la prima volta senza l'obbligo di andare solo a fare la spesa. Il Comune permette l'uscita per attività motorie.

Ho scelto di fare una passeggiata in centro. Era la prima cosa che mi ero ripromessa di fare, appena sarebbe tornato possibile.

Provo un senso di timore su quello che si può fare o no, forse ho davvero arredato il tunnel. Non sono mai sicura al cento per cento, le informazioni non sono mai precise. Eppure sono stata attenta a come e dove mi informavo, evitando per quanto possibile cloache e polemiche online, ma scegliendo accuratamente le fonti da seguire: quelle più ufficiali e giornali e giornalisti che seguo di solito e so essere affidabili, come il buon Francesco Costa del Il Post, per esempio.
Inoltre, il non avere più la tivvù in casa da una quindicina di anni, pensavo mi avesse aiutata a procurarmi gli anticorpi per scremare al volo le notizie.

Invece.

Sono uscita timorosa, con mille dubbi. Ho dovuto ripetermi che l'attività motoria è di nuovo permessa, è dunque ok uscire per camminare. Però il mio cervello è rimasto sul chi va là.
Era mia intenzione arrivare in centro e ritornare indietro. Un paio di ore abbondanti, ordinaria amministrazione durante le camminate pre-coronavirus. E così è stato.
Ho scartato l'idea di portare la macchina fotografica con me. Mi pareva una cosa inopportuna. Poi in centro ho visto un sacco di gente che [giustamente] faceva foto. Documentare un momento come questo è importante. La prossima volta la porto eccome. Nel frattempo mi sono accontentata dello smartphone.



Il centro è bellissimo, surreale, silenzioso. Quasi solenne, ma con una vena inquietante.

Mi è venuto in mente il meraviglioso The Leftovers quando la protagonista Nora Durst [spoiler alert!!!] alla fine riesce ad andare nell'altra dimensione, dove sono finiti i departed, e trova un mondo identico al suo, ma vuoto e infinitamente triste [fine spoiler].

In centro ho sentito la mancanza della musica e di quei rumori di sottofondo che ne definiscono il carattere e l'atmosfera. Centinaia di persone in una piazza fanno un rumore inconfondibile, che riascolteremo tra chissà quanto tempo.

Si era fatta l'ora di pranzo, ho comprato un pezzo di schiacciata al forno Sartoni, in via dei Cerchi. Poi l'ho mangiato di nascosto, mentre andavo verso piazza della Signoria. Mi sono resa conto che forse non ci si può fermare per mangiare. O forse sì. Boh. Le zone grigie sono quelle che temo di più: sono i luoghi dove il Comune fa cassa e dove diritti e doveri diventano discrezionali in base a convenienze e contingenze.

Ingollato l'ultimo morso, però, ho cominciato a sentirmi a mio agio. Ho percorso le strade in cui amo passeggiare di solito, con una goduria crescente. Ho evitato di andare in Oltrarno e passare dal Ponte Vecchio, ci andrò alla prossima uscita. Ho fatto poche foto solo perché a un certo punto mi sono dimenticata di farle.


E' stato bello.

Tornando verso Novoli mi sono fermata a fare la spesa. Alla coop hanno creato un percorso per la fila. Prima si girava intorno al piazzale e basta. Adesso c'è un percorso vero, fatto con bancali e nastro. Mi ricorda il percorso dei go-kart a pedali in qualche località di vacanza scrausa della mia infanzia. C'era un tizio in giacca con badge coop che spiegava ad altri dipendenti come posizionare la pista il giorno dopo. Ho preso atto della novità, poi sono tornata a casa.

Diario del 1 maggio



Da oggi in Toscana si può uscire per fare attività motoria. Non so come sia nel resto d'Italia. Non è che non mi interessi, è che non sono riuscita a capirlo. Ma a Firenze si può, se si esce a piedi partendo da casa e ritornandoci.

Attendevo questo momento dall'inizio della reclusione. Mi sono mancate le mie passeggiate che anche senza coronavirus di solito faccio da sola, senza interagire con nessuno. Il distanziamento sociale è parte di me.

Con la fine del divieto di passeggio ero convinta che sarei schizzata fuori casa e avrei camminato per un paio d'ore come ho sempre fatto nei fine settimana. Fino al covid-19, of course. A dire il vero, quando siamo entrati in lockdown pensavo che camminare da soli, con tutte le precauzioni del caso, avrebbe continuato ad essere possibile. Perché fa bene, riduce lo stress, perché la maggior parte di noi abita in case piccole ecc.

Poi sappiamo com'è andata.

Non recriminiamo. Per fatica, non per evitare polemiche. Torniamo a stamani. Mattinata fredda e nuvolosa.

Mentre alzavo gli occhi al cielo e ho deciso di rimanere a casa. "Forse esco dopo, nel pomeriggio" mi sono detta senza convinzione.

Ho preparato il tè coi biscotti ai cereali del Mulino Bianco. Inzuppavo i dischetti ai frutti rossi e riflettevo preoccupata: "Ho arredato il tunnel e non me ne sono neanche accorta".

Perché sono due mesi che voglio fare una passeggiata che non sia andare al supermercato più vicino cercando di metterci meno tempo possibile. Come tutti noi, del resto.

E allora perché mi è passata la voglia?

Depressione?
Ipotesi scartata subito. Non me la posso permettere la depressione.

Automatismi?
Ecco, precisamente. Credo si tratti di questo. Ho dovuto cambiare la mia routine da "anziana che ha i suoi rituali", e adesso mi ci sono abituata.

Ora sono qui a cercare di capire quante e quali sono le altre abitudini che ho perso e che mi toccherà ricostruire.

Tutto brutto?

No. Ci sono anche quelle (poche a dire il vero) abitudini che ho preso durante la quarantena e che non voglio perdere. Tipo cucinare di più, che è una cosa sana e mi dà una soddisfazione che avevo dimenticato.

Cibi-guida della pandemia

Melanzane, taralli, crostatine all'albicocca, banane.

Ho il forno rotto da mesi, altrimenti avrei panificato a raffica, come tutti. Credo.

Sono due giorni che sono ritornata al lavoro e sto già facendo bilanci sulla mia vita e il mio futuro. Me lo posso permettere. Ce lo possiamo permettere, adesso. Siamo ancora in un limbo, la tragedia economica che ha colpito l'azienda verrà fuori tra qualche settimana. Per adesso è concesso fantasticare bischerate del tipo: "basta, mollo tutto e vado [sostituire con località amena della nostra gioventù]", "prenderò in mano la mia vita e le cose cambieranno..." ecc.

Alla prima riunione in cui ci verrà chiesto di guardare l'abisso ritornerò all'istante in modalità terrorizzata e disposta a sopportare qualsiasi cosa pur di salvare il posto di lavoro. Per adesso però non ci voglio pensare. Preferisco sognare una vita implausibile nei sobborghi di Londra, col pub di quartiere a due passi. Si chiamano meccanismi di coping, mi dicono.

Riso carnaroli, arance spremute, prosciutto cotto, pere.


A futuri meme (se i meme hanno un futuro)

Oggi ho ricominciato a lavorare in ufficio. Un primo passo verso la normalità, qualunque cosa significhi in un momento come questo.

L'ufficio era deserto. Sono stata da sola per tutto il giorno, nella mia stanza. Con gli altri quattro o cinque presenti ci siamo salutati a distanza, senza chiederci nulla, come se non fosse passato un mese e mezzo dall'ultima volta. Sono state le ultime persone che conosco che ho salutato di persona all'inizio di questa cosa e sono le prime che ritrovo. Colleghi.

Ho passato un mese e mezzo da sola in casa e non è stato neanche tanto malaccio. Però adesso mi mancano gli amici. Le chat collettive, con gli aperitivi bevuti ognuno a casa sua, sono stati solo un pallido surrogato di vita. Ringrazio la tecnologia, certamente. Ma ora anche basta.

Non vedo i miei genitori da quasi due mesi. Meglio così, sarei stata autorizzata a raggiungerli solo in caso di emergenza. E grazie al cielo non c'è stata.

Sono stata tanto tempo a casa ma ora non mi sento riposata né sul pezzo. Ho vissuto la reclusione a velocità ridotta, una specie di letargo in veglia che non saprei definire altrimenti.

Pensavo che potendo andare a lavorare avrei anche potuto fare qualche passeggiata dove mi pare, ma a quanto pare no. Devo controllare però, non mi fido.

Se c'è una cosa che ho imparato in questi due mesi è che esiste tutta una categoria di persone che gode nel frustrare gli slanci altrui. Gente che sta male sempre, ma che in condizioni normali si mimetizza abbastanza bene. Invece la quarantena li ha attivati e la delazione del podista solitario li ha fatti splendere di una luce malata.

Di positivo c'è che ormai non si possono più nascondere.

Ne conosco alcuni così, in futuro cercherò di averci meno a che fare possibile.

Vendemmia di meme


Me li voglio ricordare i meme del coronavirus. Prime settimane.












Musica di merda

I primi giorni di isolamento era tutto un rimettere a posto. La Scimmia del Riordino, ce l'abbiamo avuta tutti. Poi è passata piuttosto in fretta, come ci garberebbe tanto che passasse questo virus.
Durante la Scimmia ho avuto la prima Grande Consapevolezza della quarantena che ancora mi fa sussultare all'improvviso o svegliare di botto borbottando improperi, come stamani. La prima Grande Consapevolezza è arrivata quando ho riordinato i cd. Ne ho tanti, ascolto sempre i soliti perché la maggior parte sono in un armadio a muro che fino al covid cercavo di aprire il meno possibile, l'interno mi ricordava le macerie dopo un crollo improvviso, una zona rossa fatta di cd, faldoni, arredi natalizi buttati alla rinfusa e ogni genere di suppellettile polverosa.
Adesso, dopo il Grande Riordino, apro quell'armadio almeno una volta al giorno e la visione mi rilassa, come un paesaggio di montagna. Ma mi rifiuto di ringraziare il coronavirus.




Comunque nel marasma ho rimesso a posto tutti i cd, spolverandoli a uno a uno, prendendo coscienza con orrore della musica di merda che ho accumulato negli anni. Una parola sola: imbarazzante.
Potrei fare la lista delle cose agghiaccianti, robe che un tempo davvero mi piacevano e adesso invece non capisco perché potessi aver avuto voglia di ascoltare certa roba. Un po' ci sta, perché si cambia, è normale. Tuttavia sono scioccata dalla quantità di cd improponibili.
Poi c'è una sezione ancor più grande, chiamiamola carpe diem, fatta di musica per lo più masterizzata su cd in cui spesso non c'è nemmeno la copertina, ma soltanto due parole scritte col pennarello direttamente sul disco che dovrebbero "evocarne" il contenuto. Si tratta di musica che ho ascoltato una tantum, per esempio, durante una vacanza, una festa, un momento particolarmente significativo: se avessi avuto il cd avrei potuto rivivere l'esperienza, sarebbe bastato mettere il disco nello stereo. Tipo souvenir dello spirito e della memoria. Funziona così solo in parte, almeno per me. Di alcuni cd mi ricordo la storia, altri sono diventati parte del mio presente, di altri ancora ho dimenticato tutto e oggi guardo disgustata tutta quella plastica.

Poi ho iniziato a rendermi conto che c'è pure un gruppo di Grandi Assenti da tenere in considerazione: i cd spariti. Alcuni mi ricordo di averli prestati in modo avventato nel corso degli anni.
L'amico frikkettone, personaggio ricorrente nel mio blog dell'epoca d'oro, ne ha presi un bel po' senza mai riportarne uno indietro. Altri li ho prestati e non ricordo più a chi, così non li posso reclamare. E via via che mi rendevo conto di che cosa mi manca, mi saliva il Grande Giramento di Scatole. Parliamo di una lista lunghissima fatta di Pink Floyd, Queen, Oasis, Mina, Metallica, Green Day, Jobim... Quello stesso giramento che mi ha fatta svegliare stamani - 25 aprile 2020 giornata fondamentale per la nostra democrazia, in piena era della pandemia globale - con un solo pensiero: a chi ho dato Arena dei Duran Duran? Quando l'ho prestato? Perché non è più qui? Per tutto questo tempo ho pensato che fosse finito nel marasma dell'armadio, ma adesso lì dentro c'è un giardino zen.
E la lista di cd mancanti si allunga. La vendetta sarà spietata.


 

Diario di inizio quarantena (col senno di poi): la Grande Noia

Diario del 14 marzo 2020 (col senno di poi)

Sono ancora sorda, ho fatto l'aerosol ma non è servito a nulla. Grande dibattito in chat, a quanto pare dovrei fare l'aerosol più spesso: mattina, pomeriggio e sera. Che palle. (Poi è passato da sé.)
Colazione: bananina, tè, biscotti salutari dell'Esselunga. Sono buoni, ma lasciano la segatura in bocca. Ho voglia di ricominciare a fare il caffè al mattino. Aggiunto caffè alla lista delle prossima spesa. (Adesso è un must, non riesco a capire come abbia fatto a prendere il tè per anni e anni. Ero impazzita, non c'è altra spiegazione.)
Guardato news su YouTube e letto un po' di giornali online.
Dalla finestra vedo che c'è un po' di gente in strada, in coda dal fornaio. La tramvia in funzione dà un senso di normalità. (Continua a darmi la stessa sensazione.)
Dopo colazione ho cancellato un po' di immagini dal cellulare. Praticamente tutti i meme che raccatto, mio malgrado, nei gruppi Whatsapp. Molti gruppi non li leggo più, ma i meme li rastrello ugualmente. Promemoria: rivedere impostazioni. (Ancora non l'ho fatto e continuo a raccattare mega su mega di cavolate.) Nell'opera di pulizia, sono andata a ritroso tra i file, ripercorrendo all'indietro la storia di questi ultimi giorni. Dagli appelli accorati, andrà tutto bene, state a casa ecc. di questi giorni, fino all'ironia ignara dei primi tempi di 'sto virus, quando il tutto doveva essere per forza una bischerata o una roba da cinesi.
Ho raccolto un numero impressionante di meme del tizio col barattolo della Nutella attaccato alla bocca con lo scotch, tipo mascherina. Ah ah. E poi anche di un altro tizio, seduto tra pacchi di Amuchina che guarda soddisfatto il malloppo, credo sia un personaggio di un telefilm che non ho mai visto. Questi sono, almeno nella mia bolla, i meme più gettonati dei primi tempi del coronavirus. (Nella bolla, Amuchina surclassata da Candeggina in un battibaleno.)



Ieri ho fatto 50 minuti di coda all'Esselunga. Non avevo mai avuto il frigo così pieno. (La me stessa del 21 aprile sorride intenerita: aspetta e vedrai, mia cara, adda passà 'a nuttata.)
Poi sono andata a comprare nel centro Vodafone una scheda marca Ho da 50gb da usare nel modem nuovo. Meglio abbondare coi giga di questi tempi.
Avevo provato ad acquistare la scheda al punto Iliad dentro il super, ma c'è solo un totem dove inserisci i dati e la sim ti arriva entro 14 giorni. Questo però lo capisci solo dopo aver fatto tutta la procedura che consiste anche nel registrare un piccolo video di autodichiarazione della propria identità. Un trauma. Quando mi sono rivista, inquadrata dall'alto, con i capelli sudaticci, la faccia grigia e i ciuffi bianchi in bella mostra mi sono spaventata. Faceva caldo, ero troppo coperta, però ho avuto un momento di autoconsapevolezza piuttosto pesante. Comunque 14 giorni non se ne parla, a me serve adesso la potenza dei giga.
Sono una donna anziana che sta per affrontare due settimane di autoisolamento, devo avere il traffico dati in ordine. (Non infierisco, mi abbraccio virtualmente.)
Allora ho deciso di fermarmi alla botteghina col nerd che mi ha spiegato tutte le possibilità di giga e sim, ed è stata la scelta migliore.
Ieri ho fatto anche la mia prima videochiamata con Whatsapp. O meglio: mi ha chiamata A. e poi si è aggiunta B.
Tutta contenta, dopo ho videochiamato anche i miei zii, che stanno in aperta campagna e tutta questa faccenda del coronavirus impatta poco sulle loro vite. (Per adesso, poi verranno seguiti dai vigili mentre sono a controllare le vigne e saranno esasperati dal sindaco - sceriffo che fa dirette Facebook a raffica per redarguire i cittadini indisciplinati che vanno nell'orto, MA senza mai dare spiegazioni sull'accesso a tamponi e mascherine. Adesso la zia non vede l'ora di andare a votare qualcuno meno scionno.)

Dopo provo a videochiamare i miei genitori. (Non l'ho ancora fatto, sono una persona orribile.)
Sono ansiosa, fumo troppo, ho paura soprattutto per i miei che sembrano ignorare la pericolosità di questa cosa che non andra bene come dicono, me lo sento.

Fine diario del 14 marzo 2020 (e del senno di poi 21 aprile).

Diario dalla reclusione

Riattivo questo blog per un motivo personalissimo. Stamani ho ritrovato una pagina del diario che dai primi di marzo era mia intenzione scrivere durante tutto il periodo dell'isolamento. Mi era sembrato un espediente azzeccato per ritornare a scrivere di cose personali, senza pubblicarle online, usando un vecchio blocco note ingiallito, chissene frega, solo per la soddisfazione che mi dà fissare i pensieri con le parole. E anche togliermi un po' di ruggine ché non sono più abituata a scrivere robe mie e ogni tanto mi manca, nonostante continui a scrivere online regolarmente, ma su altri argomenti. Temi che mi interessano, sia chiaro, però sono altro rispetto alla scrittura personale.

La buona intenzione del diario è durata un giorno, poi ho lasciato correre, vinta da quel senso di inquietudine e paura che ha preso il sopravvento durante il primo periodo della reclusione, quando ancora si pensava che tutta la questione coronavirus sarebbe durata un paio di settimane e rizzati.

Oggi, intorno al quarantesimo giorno, sono in preda a un'inquietudine più variegata che, oltre a comprendere il maledetto coronavirus, include anche il lavoro, la mia salute extra covid-19, alcune scadenze, una cosa che è saltata e su cui avevo lavorato un anno, alcuni genitori di amici che nel frattempo si sono ammalati.
Uno si sta riprendendo, un'altra è messa male e si trova dall'altra parte del mondo, in quel Massachusetts dove milizie private di invasati con le svastiche vanno a protestare contro le chiusure, imbracciando armi da assalto che gli rimbalzano sulle pance da birra.
Come si fa a consolare un'amica che sta perdendo la madre, senza poterla vedere ormai da settimane? In più, in un momento del genere, ritrovarsi con The Orange Man - come lo chiama lei - al potere e i nazisti del Massachusetts (semicit.) a giro incazzati è il non plus ultra della sfiga.

Poi penso che sono fortunata. Abito a Firenze e non nel Massachusetts. I miei genitori stanno bene, non li vedo da quasi due mesi e a loro va benissimo, hanno smesso di fare gli spavaldi ("te non mettere bocca, sappiamo noi come comportarci") da quando un loro amico è finito a Careggi con il covid e se l'è vista brutta.
Poi sono a casa mia, dove non ho mai passato così tanto tempo dall'età adulta. Ho fatto alcuni lavoretti, ho imparato a riparare cose che mai avrei pensato, tipo le prese elettriche, ho fatto mente locale su altre cose da fare appena riapriranno i tappezzieri e i mercatini dell'usato.

Però in queste settimane ho fatto una gran fatica a leggere. Proprio non ne avevo voglia. E sì che mi vanto di essere una lettrice attiva (mi sta antipatico usare "forte"), di macinare un libro dietro l'altro. Ecco, col coronavirus a tenermi in casa tutto il giorno mi è passata la voglia in un botto. Eppure era sempre stato il mio desiderio avere giornate tutte per leggere. Con la prospettiva reale di disporre di giorni e giorni chiusa in casa, mi è passata la voglia di libri in un attimo.
Leggendo sui social, non sono stata l'unica a sentirmi così. C'è un sacco di gente su Facebok sorpresa dal non riuscire a trovare la concentrazione né le motivazioni in un momento che, in teoria, sarebbe l'ideale. E nei commenti tantissimi confessavano le stesse difficoltà.

Alla fine ho vinto l'angoscia e sono riuscita a trovare di nuovo la voglia di leggere, usando un espediente casuale: i libri da "pilucco". Quelli che sai che ti piacciono e li apri a caso per leggerne qualche pagina, senza impegno, solo per il gusto di. Nel mio caso questi due:


Ottimi entrambi, sono stati l'apripista per farmi ritrovare la voglia di leggere.
Ed è stato un bene perché in questi giorni ho letto un libro favoloso che non anticipo, perché voglio scriverci un post a parte. Dico solo che mi ha donato ore di goduria pura.

Ecco, volevo riportare il diario di un mese fa, invece ho divagato, come ai vecchi tempi.

Meglio così.

La teoria della classe disagiata - recensione + flusso di coscienza

  Ho finito di leggere La teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, edizione Minimum Fax. Una lettura che mi ha messo addo...